Write drunk, edit sober. (Ernest Hemingway)

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Letture estive per tutti i gusti!

La sentinella
di Fredric Brown

Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame freddo ed era lontano 50mila anni-luce da casa. Un sole straniero dava una gelida luce azzurra e la gravità doppia di quella cui era abituato, faceva d’ogni movimento un’agonia di fatica. Ma dopo decine di migliaia d’anni, quest’angolo di guerra non era cambiato. Era comodo per quelli dell’aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le loro superarmi; ma quando si arriva al dunque, tocca ancora al soldato di terra, alla fanteria, prendere la posizione e tenerla, col sangue, palmo a palmo. Come questo fottuto pianeta di una stella mai sentita nominare finché non ce lo avevano mandato. E adesso era suolo sacro perché c’era arrivato anche il nemico. Il nemico, l’unica altra razza intelligente della galassia… crudeli schifosi, ripugnanti mostri. Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era stata subito guerra; quelli avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica. E adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, coi denti e con le unghie.
Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame, freddo e il giorno era livido e spazzato da un vento violento che gli faceva male agli occhi. Ma i nemici tentavano di infiltrarsi e ogni avamposto era vitale. Stava all’erta, il fucile pronto.
Lontano 50mila anni-luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l’avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle.
E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più.
Il verso, la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti, col passare del tempo, s’erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d’un bianco nauseante e senza squame…


Allora, Cinquanta sfumature di grigio parla di ASPETTATE DOVE STATE ANDANDO STAVO SCHERZANDO.
Minchia se siete presi male, oh.

Tranquilli, oggi parleremo di tutt’altro, e nello specifico di macelleria narrativa. Fate la faccia entusiasta!

Mi dia… un quarto di fantasy e due costine di giallo. Quei racconti erotici sono freschi?

Quella vecchia volpe di Alfred Hitchcock diceva

Drama is life with the dull bits cut out.

Cioè

Il dramma è la vita con le parti noiose tagliate.

In altre parole! Se doveste girare un documentario dal titolo Vita segreta delle marmotte e piazzaste una telecamera per una settimana di fronte alla tana di una marmotta, a riprendere ventiquattr’ore su ventiquattro quello che succede e non succede, alla televisione poi trasmettereste ventiquattro per sette uguale CENTOSESSANTOTTO ore di filmato non-stop della tana della marmotta? Non credo proprio. Persino alle opere a fine divulgativo e documentaristico, infatti, viene applicato un rigido sistema di selezione e montaggio prima di pubblicarle. Perché è (anche) di questo che è fatta la narrativa: di selezione.

Qualsiasi sia la storia che vogliamo raccontare, ci sono che includiamo e cose che escludiamo. Con che criterio? Beh, quale metodo migliore per spiegarlo che questo:



Quando il nostro caro professor Jones si sposta da un capo all’altro del mondo all’avventura, non viene mostrato lui che sale sull’aereo, che aspetta che l’aereo decolli, che legge il solito depliant esplicativo sulle manovre di sicurezza da effettuare in caso di incidente, che chiede uno snack alla hostess, che sta scomodo sul sedile perché quello davanti si è fatto troppo indietro ecc. ecc. Ci basta appunto montare una scenetta del genere, dove l’aeroplanino si sposta dal punto A al punto B, per dire allo spettatore tutto ciò che gli serve sapere.

Ma come si fa a decidere cosa il lettore deve sapere o no? Vuol dire che bisogna eliminare tutta la “ciccia” e lasciare solo le “ossa” di una storia? Dove si lavora di accetta e dove di bisturi? Cerchiamo di capirlo con qualche esempio.

[1] «Ciao, Harry, come va?»
«Bene, Ron, grazie. Tu?»
«Massì, dai, bene. Normale.»
«Tua mamma?»
«Bene anche lei. Ha comprato un nuovo libro di cucina, Cose buone che non ti aspettavi che sapessero cucinare i Troll, e ogni giorno ci prepara qualcosa di nuovo.»
«Ah, bene! Vorrà dire che una di queste sere mi auto-inviterò a cena da voi.»
«Quando vuoi, Harry! Lo sai che alla Tana sei sempre il benvenuto.»
«Lo so, lo so, è solo che ultimamente sono stato un po’ preso dal lavoro.»
«Ah sì? Le solite scartoffie?»
«Sì, non me ne parlare, guarda. Ne ho fin sopra i capelli.»

OMMIODDIO, VI DECIDETE A FARE QUALCOSA DI INTERESSANTE O NO?

Strano ma vero, di fronte a scene del genere, spesso l’autore si nasconde dietro alla parola magica verosimiglianza. “Ma guarda che nella vita vera le persone parlano così. Ma guarda che io parlo così. Ma guarda che capita che la gente parli senza voler necessariamente andare a parare da qualche parte.”

Questa è quella che in gergo tecnico viene definita cazzata. Ah, no, scusate, volevo dire stronzata. Sapete com’è, il lessico specifico è difficile da memorizzare.

Perché mai sarebbe una stronzata? Facile, miei piccoli lettori. Sì, è vero, la gente parla così. La gente quando parla non sempre lo fa per dire qualcosa di significativo o di interessante. E sapete perché? Perché la gente comune, la gente vera, la gente di tutti i giorni NON DEVE FAR ANDARE AVANTI UNA TRAMA.

Pensateci un attimo. Qual è la principale differenza tra una storia vera e una storia di fantasia? Che la storia vera non ha necessariamente un senso, una conclusione, qualcosa che alla fine rimetta a posto tutti i tasselli. Se io oggi incontro per caso il mio vecchio compagnuccio di scuola Gigino, che adesso fa il poliziotto, non significa necessariamente che di qui a qualche giorno verrò coinvolta in un’indagine di polizia – per cui, guarda caso, è proprio fondamentale che io abbia riallacciato i rapporti con Gigino, perché altrimenti mai e poi mai avrei potuto accedere al database della polizia per scoprire se il giardiniere della contessa Ildebranda ha mai avuto precedenti penali! Nella vita vera, oggi incontro Gigino e magari non lo incontrerò mai più in vita mia. O magari lo incontro, ci mettiamo d’accordo per prendere un caffè di tanto in tanto con i figli, E BASTA. Non deve avere un senso, uno scopo, un perché. Accade perché sì, perché è il caso.

La mia prof di matematica del liceo diceva sempre: “Fatti interrogare oggi, Baldaro, perché domani, chi lo sa, magari ti cade un cocco in testa!” Mettendo un attimo da parte che io avrei preferito ricevere il cocco in testa che farmi interrogare in matematica, c’è una verità narrativa piuttosto forte in questa affermazione. Se ad esempio Harry Potter fosse finito così?

[2] «Hermione, la Profezia è chiara! Io dovrò scontrarmi faccia a faccia con Voldemort, e uno dei due in questo confronto morirà.
Hermione era in lacrime. “Ma è terribile, Harry!”
“Lo so, ma è il mio destino, e contro il destino non…”
Harry non finì mai la frase, perché arrivò all’improvviso un autobus e lo investì, uccidendolo.

MEEEP MEEEP

Nella vita vera questo succede per davvero. Capita di uscire in bici e di venire investiti da un bus. Capita di cadere in un tombino. Capita di svegliarsi tardi e non fare in tempo ad arrivare in università per dare un esame, capita di perdere il treno, capita di avere giornate in cui non succede niente. MA IL FATTO CHE SUCCEDA NELLA VITA VERA NON SIGNIFICA CHE FUNZIONI NECESSARIAMENTE ANCHE SU CARTA.

Per cui, come per il professor Jones che vola da Chicago a Dubai, ci sono scene che, anche se fanno parte della vita vera, non siamo tenuti a descrivere, per non rischiare di scadere nel noioso. Una cosa diffusissima nelle fanfiction è quella di introdurre lentissimissimamente il personaggio con una lunga digressione sui suoi preparativi per andare a scuola. Tipo:

[3] Rebecca si svegliò e guardò la sveglia sul comodino. Erano le 7:45. Sbadigliò e si alzò dal letto, cercando le ciabatte con i piedi nudi. Si diresse verso l’armadio e ci frugò dentro per qualche minuto, alla ricerca di un paio di un paio di jeans puliti e di una maglietta. Ne trovò una rosa con raffigurata in bianco la silhouette di Hello Kitty. Andò in bagno con i vestiti puliti sotto braccio. Si spogliò davanti allo specchio, si infilò sotto la doccia e si lavò con un bagnoschiuma alla lavanda, quello di sua madre. Pensò per qualche minuto alla scuola, sperando di non venire chiamata alla lavagna a fisica, poi uscì e si infilò il reggiseno, le mutandine e la maglietta senza asciugarsi i capelli. Se li spazzolò che erano ancora umidi, poi ci passò una phonata veloce. Faceva caldo, si sarebbero asciugati da soli. Si mise anche i jeans, buttò il pigiama sporco nella cesta della biancheria e uscì dal bagno a piedi nudi. Scese dabbasso dove l’aspettava il solito caffellatte con i biscotti. La prima cosa che notò, però, è che stranamente suo padre era ancora in casa e che aveva l’aria torva.

Ora, vedete chiaramente anche voi che l’intero paragrafo potrebbe essere riassunto in un

[4] Quando Rebecca quella mattina scese a fare colazione, notò che stranamente suo padre era ancora in casa e che aveva l’aria torva.

Qui si lavora con l’accetta, anzi, con la motosega!

Perché la descrizione di Rebecca non è interessante? Essenzialmente perché non ha alcun motivo per esistere. È una scena che possiamo omettere tranquillamente, perché anche il lettore medio si sveglia tutte le mattine, e avrà letto un fottilione di descrizioni di risveglio, e va lì va là sa benissimo qual è la routine media di una persona al mattino, quindi a che scopo descrivergli questa in particolare? Sarebbe come descrivere come funziona il telefono tutte le volte che per caso un personaggio telefona!

[5] Kate alzò la cornetta e se la portò all’orecchio, appoggiando la parte del ricevitore al padiglione auricolare e quella del microfono vicino alla bocca, in modo da poter sentire quello che la persona dall’altro capo del filo diceva, ma anche comunicare. Si dice “persona all’altro capo del filo” perché la pulsantiera del telefono è attaccata a un filo alla presa della corrente, ecc. ecc.
È una scena che non aggiunge niente: non mostra qualcosa di interessante o di insolito, non arricchisce la conoscenza che il lettore ha di Rebecca, non approfondisce la trama, e nessuna delle azioni compiute da da Rebecca ha una qualche relazione con quello che succederà dopo nella trama. Il punto è che si è svegliata e che è scesa a far colazione.

“Quindi fammi capire, Kukiness.”

Dimmi, curioso lettore interattivo (o voce nella mia testa… non riesco mai a distinguervi).

“Dicevo, quindi quello che dici tu è che praticamente vale la pena di descrivere solo ed esclusivamente ciò che è strettamente legato alla trama e/o qualcosa di bizzarro che nessuno si aspetta, giusto?”

Sbagliato.

Il punto è questo: quando si scrive bisogna essere consapevoli che tutto ciò che si omette e tutto ciò che si include avrà delle forti ripercussioni sull’intero complesso del romanzo. Se ometti troppo, si rischia ovviamente di risultare poveri, inconcludenti, sbrigativi, o peggio, di non venire capiti. Se si include troppo, si rischia invece di annoiare, di confondere, o di rallentare il ritmo narrativo all’infinito, magari spezzando quella che dovrebbe essere una scena di tensione, di pathos, o comunque dotata di una certa dinamicità.

Ogni volta che vogliamo scrivere una scena, è sensato chiedersi il perché. Il che non vuol dire che il perché debba essere necessariamente “perché deve assolutamente in qualche modo far procedere la trama!!!”. Potremmo anche trovare altri perché, ad esempio “perché voglio approfondire le motivazioni del mio personaggio”, “perché il mio romanzo ad ambientazione storica ha bisogno di essere arricchito da certe suggestioni”, “perché mi sembra che questa scena aiuti a definire meglio il rapporto tra il personaggio A e il personaggio B”.

Non è nemmeno da escludere la motivazione del “perché sì, perché mi va di descrivere minuziosamente il citofono della casa del vicino del protagonista”.

I DO WHAT I WANT

Il “tanto per fare” non è mai la migliore delle motivazioni, perché spesso conduce a compiere errori grossolani (quando non si sa dove andare a parare si rischia sempre di strafare) ma un po’ di atmosfera non la si nega a nessuno. Tanto, sapete come si dice, no? “Peggio per te” se scrivi ad cazzum e poi viene fuori una, in gergo tecnico, stronzata.

Dopo aver stabilito il perché, dovremmo avere meno difficoltà a “calibrare” le dosi della scena. Ad esempio, riprendendo l’esempio [3], la scena del risveglio; se volessimo sfruttarla per approfondire il personaggio di Rebecca? Allora chiediamoci: quante cose caratteristiche può fare un personaggio nell’arco della routine mattutina?

Rebecca potrebbe schiantare la sveglia contro il muro, inciampare in un cumulo di vestiti sporchi lasciati per terra ad accumulare polvere da una settimana; potrebbe frugare nella pila, cavarne il paio di jeans che puzza meno, e indossarlo. La doccia non funziona, perché si è dimenticata di pagare la bolletta…

Vedete anche voi che improvvisamente il risveglio diventa molto più interessante, perché è un risveglio che approfondisce il personaggio. Dobbiamo stare attenti a non dimenticare però che questa è una scena di raccordo. È verosimile, ad esempio, far durare la scena della routine mattutina per più di due pagine? Che tipo di impatto avrà sul ritmo del racconto? Va bene caratterizzare, ma non rischio in questo modo di far diventare Rebecca una macchietta?

Qualche consiglio di lettura, per trovare diversi usi dei toni descrittivi e delle varie omissioni/immissioni:

Georges Perec, La vita, istruzioni per l’uso

Irène Némirovsky, Il vino della solitudine

Joseph Heller, Comma 22

Cormac McCarthy, Non è un paese per vecchi

Tanto è estate, e sono sicura che ormai abbiate tutti finito Cinquanta sfumature di EHI NO FERMI SCHERZAVO TORNATE QUI! NON OFFENDETEVI!

Che lettori permalosi.


Letture estive per tutti i gusti.

Il pubblico del labirinto
Prologo epico, Primo tempo, Secondo tempo
di Nanni Balestrini

Eccomi qua ancora una volta
seduto di fronte al pubblico della poesia
che seduto di fronte a me benevolmente
mi guarda e si aspetta la poesia

come sempre io non ho niente da dirgli
come sempre il pubblico della poesia lo sa benissimo
certamente non si aspetta da me un poema epico
visto anche che non ha fatto niente per ispirarmelo

l’antico poeta epico infatti come tutti sappiamo
non era il responsabile della sua poesia
il suo pubblico ne era il vero responsabile
perché aveva un rapporto diretto

con il suo poeta
che dipendeva dal suo pubblico
per la sua ispirazione
e per la sua remunerazione

la sua poesia si sviluppava dunque
secondo le intenzioni del suo pubblico
il poeta non era che l’interprete individuale
di una voce collettiva che narrava e giudicava

questo non è certamente il nostro caso
non è per questo che siete qui oggi in questa sala
purtroppo quello che state ascoltando non è
il vostro poeta epico
e questo perché da tanti secoli
come tutti sappiamo
la scrittura prima
e successivamente la stampa

hanno separato con un muro di carta e di piombo
il produttore e
il consumatore della poesia scritta
che si trovano così irrimediabilmente separati

e perciò oggi il poeta moderno
non ha più un suo pubblico da cui dipendere
da cui essere ispirato e remunerato
solo pubblici anonimi e occasionali

 

come voi qui ora di fronte a me
non più una voce collettiva
che attraverso la sua voce individuale
racconta e giudica

il suo rapporto col pubblico ha perso ogni valore dicono
non gli rimane che concentrare il suo interesse
sui problemi dell’individuo singolo
sui suoi comportamenti particolari

il poeta moderno è autosufficiente
praticamente mai remunerato
non pronuncia alcun giudizio
ciò che conta per lui ci dicono
è soltanto il suo
immaginario
le sue ossessioni consce
e inconsce

perché per lui non esiste ci dicono
che l’individuo come singolo
irriducibilmente diverso
e separato dagli altri

e così il poeta moderno
solo
o anche davanti al pubblico della poesia
dialoga individualmente con la sua poesia

Lei è qui in piedi di fianco a me
ha un vestito bianco o nero
ha un’aria sorridente e distesa
guarda davanti a sé

guarda il pubblico della poesia
il pubblico della poesia la guarda
il pubblico della poesia si chiede
che cosa farà

lei non fa niente
guarda il pubblico della poesia
che è là seduto davanti a lei
con vestiti bianchi o neri

sono qui tutti
salvo quelli che non sono venuti
per motivi diversi
quelli che avevano altro da fare

quelli che non amano la poesia
quelli che si sono dimenticati di venire
quelli che si sono ammalati
quelli che hanno dovuto partire improvvisamente

quelli che all’ultimo momento hanno deciso di non venire
per motivi diversi
alcuni accettabili altri inaccettabili come
la paura del fuoco
la mancanza di fiducia
il cuore spezzato
e altre storie del genere che lei non verrà mai a sapere
e noi nemmeno grazie al cielo

adesso lei forse alzerà la mano sinistra
no non alza la mano sinistra
sì adesso alza la mano sinistra
tutti possono vedere che ha alzato la mano sinistra

adesso potrebbe alzare anche la mano destra
invece solleva un poco il piede sinistro
ma non solleva contemporaneamente anche il piede destro
e nemmeno la veste e nemmeno i suoi occhi al cielo

potrebbe adesso volare cantare o rotolarsi per terra
pensa il pubblico della poesia ingenuo e ignaro
la vede invece riabbassare il piede e anche la mano
e poi chiudere i suoi grandi occhi sognanti

adesso lei non vede più il pubblico della poesia
ma il pubblico della poesia non chiude i suoi piccoli occhi
e continua a guardarla
e a chiedersi che cosa farà

lei non fa niente
ascolta la mia voce
potrebbe anche ascoltare la voce del pubblico della poesia
ma il pubblico della poesia non è qui per parlare
è qui soltanto per ascoltare la mia voce
altrimenti può anche andarsene
scomparire per sempre nella notte
nera e profonda come un labirinto

lei sente la parola labirinto
con gli occhi chiusi avvolti dalle tenebre
e ha la sensazione di essersi perduta
in un labirinto oscuro inestricabile

un labirinto fatto di parole
in cui è entrata senza saperlo
e da cui non sa se uscirà
quando uscirà come uscirà né dove

ora il suo corpo diventa un labirinto
qualcosa che ha un’entrata e un’uscita
come una ciambella con due buchi
e tra questi due buchi una serie di percorsi

il numero dei percorsi è infinito
infiniti percorsi di parole
in cui siamo entrati senza saperlo
e da cui non sappiamo se usciremo quando come dove

spaventata lei adesso riapre gli occhi
rivede il pubblico della poesia
che si stende davanti a lei come un grande foglio bianco
su cui può scrivere quello che vuole
si chiede perché è lì invece che essere altrove
ma forse lei non pensa a questo
anche se può pensare a tutto quello che vuole
anche se potrebbe benissimo essere altrove

potrebbe essere là al posto del pubblico della poesia
e il pubblico della poesia essere qui al suo posto
o anche al mio posto perché no
ma forse è meglio che la poesia non sia fatta da tutti

improvvisamente lei solleva il piede sinistro
lo porta avanti lo abbassa
solleva il piede destro
lo porta avanti lo abbassa

comincia a camminare
dirigendosi verso il pubblico della poesia
un passo dopo l’altro
avanza camminando attraversando la sala

il pubblico della poesia la segue con lo sguardo
animato da sentimenti contrastanti
mentre lei lo attraversa
come una linea nera su un grande foglio bianco

la scena è perfettamente silenziosa
salvo il suono della mia voce che descrive
imparzialmente tutto quello che avviene in questo
momento sotto gli occhi del pubblico della poesia
potrei parlare invece di un sacco di altre cose
che lo farebbero restare a bocca aperta
ma per questa volta ho deciso
di attenermi alla pura realtà dei fatti

come tutti vedono lei sta camminando lentamente
attraverso la sala in una direzione precisa
che ancora noi non conosciamo
ma che è inutile cercare di indovinare

spesso viene qua gente col solo scopo di indovinare
o che magari crede di sapere già tutto
ma è gente con cui io preferisco non avere a che fare
gente da cui non comprerei un’automobile usata

con cui non vorrei trovarmi non dico su un’isola deserta
o in un ascensore durante un blackout
ma nemmeno seduto accanto in questa sala
vi consiglio perciò di diffidare del vostro vicino

lei intanto avanza verso il fondo della sala
sempre camminando lentamente e silenziosa
e adesso senza voltarsi imperturbabile
raggiunge l’uscita della sala

adesso lei varca l’uscita
adesso lei è uscita dalla sala
adesso lei sta attraversando l’atrio
adesso lei sta uscendo dall’edificio
adesso lei sta salendo su un taxi
adesso lei sta scendendo alla stazione
adesso lei sta salendo su un treno
adesso il treno parte

adesso il treno è partito
viaggia nella notte nera profonda e silenziosa
rotta soltanto dal rumore del treno
che si allontana sempre più sempre più

 

la immagina naturalmente come un’affascinante signorina
e vorrebbe che anche voi la immaginaste così
che si trova in questo momento qui di fianco a lui
cioè a me e cioè dunque lì di fronte a voi


Su EFP, scade oggi il concorso sul libro Il Circo della Notte, di Erin Morgenstern.
 

Copertina del romanzo
 
 

Il regolamento prevedeva di scrivere una fanfiction basandosi sul primo capitolo del libro (una decina di pagine). Nulla vietava di leggere tutta la storia, ma non sarebbero state considerate OOC o non valide storie che non tenessero in considerazione i capitoli successivi. Non solo, ci si poteva ispirare anche a una generale “atmosfera” che le pagine trasmettevano.

Nelle prime sei pagine (scaricabili in PDF dal sito che ho linkato sopra o anche da EFP), abbiamo questa scena: si sa che c’è un circo misterioso, il Cirque des Reves (circo dei sogni) che appare all’improvviso nel suo tendone bianco e nero. L’unico cartello fuori dalla cancellata recita:

Apre al Crepuscolo
Chiude all’Alba
 

Il primo pezzettino è scritto in seconda persona singolare, come se lo scrittore si rivolgesse al lettore/spettatore del circo, in procinto di entrare. Qualche immagine generica di circo (caramello, zucchero filato, lustrini…) e la promessa di trovarsi in un posto magico. Passiamo a una narrazione in terza persona, dove facciamo la conoscenza di Hector Bowen detto Prospero, un famoso incantatore. Al detto soggetto viene recapitata una figliola, Celia, la cui madre si è suicidata. Lui non solo accoglie la notizia con un certo fastidio, ma dà della scema alla madre della bambina e commenta sarcasticamente che avrebbe fatto meglio a chiamarla Miranda, con dotto rimando alla Tempesta di Shakespeare. La bambina non è molto più entusiasta del padre e gli fracassa una tazzina con lo sguardo, dando prova di possedere poteri magici. Tiene anche a precisare che a lei piace Celia come nome e che non ha intenzione di farsi chiamare Miranda.

Questo, in breve, il materiale su cui costruire la fanfiction.

Andando a leggere le circa 150 storie che sono state pubblicate su EFP per il concorso, ho notato alcuni particolari ricorrenti nelle storie.

1. Temi

Che domande, il tema è il circo!

Su questo, le storie non mostrano molte eccezioni: sono quasi tutte ambientate nel circo o comunque legate a quell’ambiente. Quelle che fanno eccezione appartengono a una categoria abbastanza definita, di cui parlerò dopo.

Nel circo, le autrici si sono spaccate a metà: quelle che hanno deciso di mostrarci uno spettatore e quelle che hanno scelto gli occhi di un “lavoratore” del Cirque des Reves.

Nella prima categoria, purtroppo,tutte le storie cadono nello stesso-identico-cliché: lo spettatore arriva, è cinico e diffidente, accade un qualche tipo di magia e si convince di trovarsi in un ambiente magico ed onirico. Su questo punto, non ricordo più le volte in cui ho letto alla fine della fic “Perché questo è un sogno.” “Perché la vita è un sogno.” “Era sogno o realtà?” e altro su questa scia. Le autrici dimostrano di aver capito bene che ci troviamo nel Circo dei Sogni, a quanto pare.

Però.

Insomma, uno spettatore in un circo meraviglioso vedrà delle cose, beh, meravigliose, no? Cose degne di essere descritte nei minimi dettagli.

No.

Vede “portenti, magie, prodigi, incanti, colori, nastrini”. Insomma, non vede una mazza. Racconta di aver visto cose fighe, ma il lettore si sente preso in giro. Come se un vostro amico, reduce da un’esperienza del genere, vi raccontasse dello spettacolo così:
 
– Allora, il circo?
– Bello! Sublime! Magico!
– Che fortuna! cosa hai visto?
– Eh, magie.
– Sì, ma che tipo di magie?
– Magie STUPEFACENTI!
-…
Nella seconda categoria, lo confesso, speravo con tutto il cuore di trovare molta più inventiva sui circensi che lavorano in un circo così particolare. Insomma, hai un circo magico, sbizzarrisciti! Mi aspettavo scenari alla Big Fish, per intenderci.
 
dove sono le gemelle siamesi?
 

Con mio sommo scorno, le storie che parlano di artisti, che descrivono numeri strani, insomma che mostrano un minimo di fantasia da parte dell’autore sono pochissime. Per pochissime intendo meno di 10 su 150.

E le altre? Beh, le altre parlano di Celia e Prospero. Per essere più precisi:

– Prospero scocciato da Celia

– Prospero inizialmente scocciato da Celia ma che poi le vuole bene

– Prospero che si ricorda di voler bene alla madre di Celia ed è tanto triste

– Prospero che litiga con Celia (per il nome, sempre per il maledetto nome)

– Prospero che litiga con Celia ma riconosce che brava maga è e le cede il timone

– Celia cresciuta incontra l’amore

Che, per carità: sono due maghi potenti, ne avresti di magie da inventare per mostrare l’addestramento di Celia o il potere del padre. Bene, il problema è proprio in quel mostrare: nelle storie (fa eccezione la sopracitata decina) non c’è traccia di incantesimi. E’ tutto un “fece un incanto potentissimo” “vide cose meravigliose” “Era capace di grandi prodigi”. Quali? Trasformare gli spettatori in scimmie o far spuntare conigli dal cappello? Forse accendere la scintilla della fantasia nella mente degli autori, quello sarebbe un grande incanto…

 
siore e siori, grandi prodigi!
 

La categoria a parte, di cui parlavo prima, è composta dalle storie che hanno voluto approfondire la figura della madre di Celia.

*sospiro*

Diciamo che non brillano per inventiva. Diciamo che in una parte consistente (che espressa in numeri sarebbe 99,9%) ci sono una donna disperata e povera che non sa come badare alla figlia, così la affida con gli ultimi soldi al padre. C’è la figlia che capisce e si fa adulta di colpo, la madre che piange, il Destino Porco Bastardo… e badilate di noia.

In molte storie la madre non si suicida, finge solamente di farlo. In altre (oh, un minimo di inventiva!) una creatura sovrannaturale. Queste sono le uniche storie in cui si esce dall’ambiente del circo. Finiscono sovente con la lettere che Madre scrive a Prospero.

 2. Frasi

Posso capire che, con dieci paginette come guida, uno si attacchi alle citazioni per rimanere in tema. Però che ci si attacchi a pappagallo è svilente.

Poche fanfiction si fanno mancare la citazione del cartello che accoglie i visitatori del circo, piazzata lì e poi dimenticata (al massimo si chiedono tutti “Che vuol dire?” Ma che vuoi che voglia dire! Gli spettacoli saranno di sera, citrullo!).

I sogni. Benedetti sogni, citati in lungo e in largo. Credo di aver riletto tutte le frasi fatte sui sogni, in questi due giorni. Si salvano alcuni usi intelligenti della citazione di Shakespeare “Siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni”.

Lo spettatore che se ne va chiedendosi se è stato tutto un sogno, invece, lo darei in pasto a Sandman.

3.Stile

Se un’americanza fa la figa e usa la seconda persona (a mio parere male, ma vabbè, non è una recensione del libro) non è che chi lo fa acquisisce per osmosi l’atmosfera del libro.

Ho notato molte storia scritte in seconda persona. Personalmente la narrazione non ci guadagna, anzi, io provo un senso di fastidio di fronte a questo stile. Cattiva idea da copiare.
 
che vuoi da me? Perché mi tiri in ballo, signor autore?
 

Tirando le somme, posso solo notare con un po’ di tristezza come gli spunti che gli autori hanno sviluppato per il contest ruotano attorno a pochi, noiosi cliché.

Anche se la storia, come potenziale, permetterebbe un uso smodato della fantasia.

Peccato.