Write drunk, edit sober. (Ernest Hemingway)

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Allora, Cinquanta sfumature di grigio parla di ASPETTATE DOVE STATE ANDANDO STAVO SCHERZANDO.
Minchia se siete presi male, oh.

Tranquilli, oggi parleremo di tutt’altro, e nello specifico di macelleria narrativa. Fate la faccia entusiasta!

Mi dia… un quarto di fantasy e due costine di giallo. Quei racconti erotici sono freschi?

Quella vecchia volpe di Alfred Hitchcock diceva

Drama is life with the dull bits cut out.

Cioè

Il dramma è la vita con le parti noiose tagliate.

In altre parole! Se doveste girare un documentario dal titolo Vita segreta delle marmotte e piazzaste una telecamera per una settimana di fronte alla tana di una marmotta, a riprendere ventiquattr’ore su ventiquattro quello che succede e non succede, alla televisione poi trasmettereste ventiquattro per sette uguale CENTOSESSANTOTTO ore di filmato non-stop della tana della marmotta? Non credo proprio. Persino alle opere a fine divulgativo e documentaristico, infatti, viene applicato un rigido sistema di selezione e montaggio prima di pubblicarle. Perché è (anche) di questo che è fatta la narrativa: di selezione.

Qualsiasi sia la storia che vogliamo raccontare, ci sono che includiamo e cose che escludiamo. Con che criterio? Beh, quale metodo migliore per spiegarlo che questo:



Quando il nostro caro professor Jones si sposta da un capo all’altro del mondo all’avventura, non viene mostrato lui che sale sull’aereo, che aspetta che l’aereo decolli, che legge il solito depliant esplicativo sulle manovre di sicurezza da effettuare in caso di incidente, che chiede uno snack alla hostess, che sta scomodo sul sedile perché quello davanti si è fatto troppo indietro ecc. ecc. Ci basta appunto montare una scenetta del genere, dove l’aeroplanino si sposta dal punto A al punto B, per dire allo spettatore tutto ciò che gli serve sapere.

Ma come si fa a decidere cosa il lettore deve sapere o no? Vuol dire che bisogna eliminare tutta la “ciccia” e lasciare solo le “ossa” di una storia? Dove si lavora di accetta e dove di bisturi? Cerchiamo di capirlo con qualche esempio.

[1] «Ciao, Harry, come va?»
«Bene, Ron, grazie. Tu?»
«Massì, dai, bene. Normale.»
«Tua mamma?»
«Bene anche lei. Ha comprato un nuovo libro di cucina, Cose buone che non ti aspettavi che sapessero cucinare i Troll, e ogni giorno ci prepara qualcosa di nuovo.»
«Ah, bene! Vorrà dire che una di queste sere mi auto-inviterò a cena da voi.»
«Quando vuoi, Harry! Lo sai che alla Tana sei sempre il benvenuto.»
«Lo so, lo so, è solo che ultimamente sono stato un po’ preso dal lavoro.»
«Ah sì? Le solite scartoffie?»
«Sì, non me ne parlare, guarda. Ne ho fin sopra i capelli.»

OMMIODDIO, VI DECIDETE A FARE QUALCOSA DI INTERESSANTE O NO?

Strano ma vero, di fronte a scene del genere, spesso l’autore si nasconde dietro alla parola magica verosimiglianza. “Ma guarda che nella vita vera le persone parlano così. Ma guarda che io parlo così. Ma guarda che capita che la gente parli senza voler necessariamente andare a parare da qualche parte.”

Questa è quella che in gergo tecnico viene definita cazzata. Ah, no, scusate, volevo dire stronzata. Sapete com’è, il lessico specifico è difficile da memorizzare.

Perché mai sarebbe una stronzata? Facile, miei piccoli lettori. Sì, è vero, la gente parla così. La gente quando parla non sempre lo fa per dire qualcosa di significativo o di interessante. E sapete perché? Perché la gente comune, la gente vera, la gente di tutti i giorni NON DEVE FAR ANDARE AVANTI UNA TRAMA.

Pensateci un attimo. Qual è la principale differenza tra una storia vera e una storia di fantasia? Che la storia vera non ha necessariamente un senso, una conclusione, qualcosa che alla fine rimetta a posto tutti i tasselli. Se io oggi incontro per caso il mio vecchio compagnuccio di scuola Gigino, che adesso fa il poliziotto, non significa necessariamente che di qui a qualche giorno verrò coinvolta in un’indagine di polizia – per cui, guarda caso, è proprio fondamentale che io abbia riallacciato i rapporti con Gigino, perché altrimenti mai e poi mai avrei potuto accedere al database della polizia per scoprire se il giardiniere della contessa Ildebranda ha mai avuto precedenti penali! Nella vita vera, oggi incontro Gigino e magari non lo incontrerò mai più in vita mia. O magari lo incontro, ci mettiamo d’accordo per prendere un caffè di tanto in tanto con i figli, E BASTA. Non deve avere un senso, uno scopo, un perché. Accade perché sì, perché è il caso.

La mia prof di matematica del liceo diceva sempre: “Fatti interrogare oggi, Baldaro, perché domani, chi lo sa, magari ti cade un cocco in testa!” Mettendo un attimo da parte che io avrei preferito ricevere il cocco in testa che farmi interrogare in matematica, c’è una verità narrativa piuttosto forte in questa affermazione. Se ad esempio Harry Potter fosse finito così?

[2] «Hermione, la Profezia è chiara! Io dovrò scontrarmi faccia a faccia con Voldemort, e uno dei due in questo confronto morirà.
Hermione era in lacrime. “Ma è terribile, Harry!”
“Lo so, ma è il mio destino, e contro il destino non…”
Harry non finì mai la frase, perché arrivò all’improvviso un autobus e lo investì, uccidendolo.

MEEEP MEEEP

Nella vita vera questo succede per davvero. Capita di uscire in bici e di venire investiti da un bus. Capita di cadere in un tombino. Capita di svegliarsi tardi e non fare in tempo ad arrivare in università per dare un esame, capita di perdere il treno, capita di avere giornate in cui non succede niente. MA IL FATTO CHE SUCCEDA NELLA VITA VERA NON SIGNIFICA CHE FUNZIONI NECESSARIAMENTE ANCHE SU CARTA.

Per cui, come per il professor Jones che vola da Chicago a Dubai, ci sono scene che, anche se fanno parte della vita vera, non siamo tenuti a descrivere, per non rischiare di scadere nel noioso. Una cosa diffusissima nelle fanfiction è quella di introdurre lentissimissimamente il personaggio con una lunga digressione sui suoi preparativi per andare a scuola. Tipo:

[3] Rebecca si svegliò e guardò la sveglia sul comodino. Erano le 7:45. Sbadigliò e si alzò dal letto, cercando le ciabatte con i piedi nudi. Si diresse verso l’armadio e ci frugò dentro per qualche minuto, alla ricerca di un paio di un paio di jeans puliti e di una maglietta. Ne trovò una rosa con raffigurata in bianco la silhouette di Hello Kitty. Andò in bagno con i vestiti puliti sotto braccio. Si spogliò davanti allo specchio, si infilò sotto la doccia e si lavò con un bagnoschiuma alla lavanda, quello di sua madre. Pensò per qualche minuto alla scuola, sperando di non venire chiamata alla lavagna a fisica, poi uscì e si infilò il reggiseno, le mutandine e la maglietta senza asciugarsi i capelli. Se li spazzolò che erano ancora umidi, poi ci passò una phonata veloce. Faceva caldo, si sarebbero asciugati da soli. Si mise anche i jeans, buttò il pigiama sporco nella cesta della biancheria e uscì dal bagno a piedi nudi. Scese dabbasso dove l’aspettava il solito caffellatte con i biscotti. La prima cosa che notò, però, è che stranamente suo padre era ancora in casa e che aveva l’aria torva.

Ora, vedete chiaramente anche voi che l’intero paragrafo potrebbe essere riassunto in un

[4] Quando Rebecca quella mattina scese a fare colazione, notò che stranamente suo padre era ancora in casa e che aveva l’aria torva.

Qui si lavora con l’accetta, anzi, con la motosega!

Perché la descrizione di Rebecca non è interessante? Essenzialmente perché non ha alcun motivo per esistere. È una scena che possiamo omettere tranquillamente, perché anche il lettore medio si sveglia tutte le mattine, e avrà letto un fottilione di descrizioni di risveglio, e va lì va là sa benissimo qual è la routine media di una persona al mattino, quindi a che scopo descrivergli questa in particolare? Sarebbe come descrivere come funziona il telefono tutte le volte che per caso un personaggio telefona!

[5] Kate alzò la cornetta e se la portò all’orecchio, appoggiando la parte del ricevitore al padiglione auricolare e quella del microfono vicino alla bocca, in modo da poter sentire quello che la persona dall’altro capo del filo diceva, ma anche comunicare. Si dice “persona all’altro capo del filo” perché la pulsantiera del telefono è attaccata a un filo alla presa della corrente, ecc. ecc.
È una scena che non aggiunge niente: non mostra qualcosa di interessante o di insolito, non arricchisce la conoscenza che il lettore ha di Rebecca, non approfondisce la trama, e nessuna delle azioni compiute da da Rebecca ha una qualche relazione con quello che succederà dopo nella trama. Il punto è che si è svegliata e che è scesa a far colazione.

“Quindi fammi capire, Kukiness.”

Dimmi, curioso lettore interattivo (o voce nella mia testa… non riesco mai a distinguervi).

“Dicevo, quindi quello che dici tu è che praticamente vale la pena di descrivere solo ed esclusivamente ciò che è strettamente legato alla trama e/o qualcosa di bizzarro che nessuno si aspetta, giusto?”

Sbagliato.

Il punto è questo: quando si scrive bisogna essere consapevoli che tutto ciò che si omette e tutto ciò che si include avrà delle forti ripercussioni sull’intero complesso del romanzo. Se ometti troppo, si rischia ovviamente di risultare poveri, inconcludenti, sbrigativi, o peggio, di non venire capiti. Se si include troppo, si rischia invece di annoiare, di confondere, o di rallentare il ritmo narrativo all’infinito, magari spezzando quella che dovrebbe essere una scena di tensione, di pathos, o comunque dotata di una certa dinamicità.

Ogni volta che vogliamo scrivere una scena, è sensato chiedersi il perché. Il che non vuol dire che il perché debba essere necessariamente “perché deve assolutamente in qualche modo far procedere la trama!!!”. Potremmo anche trovare altri perché, ad esempio “perché voglio approfondire le motivazioni del mio personaggio”, “perché il mio romanzo ad ambientazione storica ha bisogno di essere arricchito da certe suggestioni”, “perché mi sembra che questa scena aiuti a definire meglio il rapporto tra il personaggio A e il personaggio B”.

Non è nemmeno da escludere la motivazione del “perché sì, perché mi va di descrivere minuziosamente il citofono della casa del vicino del protagonista”.

I DO WHAT I WANT

Il “tanto per fare” non è mai la migliore delle motivazioni, perché spesso conduce a compiere errori grossolani (quando non si sa dove andare a parare si rischia sempre di strafare) ma un po’ di atmosfera non la si nega a nessuno. Tanto, sapete come si dice, no? “Peggio per te” se scrivi ad cazzum e poi viene fuori una, in gergo tecnico, stronzata.

Dopo aver stabilito il perché, dovremmo avere meno difficoltà a “calibrare” le dosi della scena. Ad esempio, riprendendo l’esempio [3], la scena del risveglio; se volessimo sfruttarla per approfondire il personaggio di Rebecca? Allora chiediamoci: quante cose caratteristiche può fare un personaggio nell’arco della routine mattutina?

Rebecca potrebbe schiantare la sveglia contro il muro, inciampare in un cumulo di vestiti sporchi lasciati per terra ad accumulare polvere da una settimana; potrebbe frugare nella pila, cavarne il paio di jeans che puzza meno, e indossarlo. La doccia non funziona, perché si è dimenticata di pagare la bolletta…

Vedete anche voi che improvvisamente il risveglio diventa molto più interessante, perché è un risveglio che approfondisce il personaggio. Dobbiamo stare attenti a non dimenticare però che questa è una scena di raccordo. È verosimile, ad esempio, far durare la scena della routine mattutina per più di due pagine? Che tipo di impatto avrà sul ritmo del racconto? Va bene caratterizzare, ma non rischio in questo modo di far diventare Rebecca una macchietta?

Qualche consiglio di lettura, per trovare diversi usi dei toni descrittivi e delle varie omissioni/immissioni:

Georges Perec, La vita, istruzioni per l’uso

Irène Némirovsky, Il vino della solitudine

Joseph Heller, Comma 22

Cormac McCarthy, Non è un paese per vecchi

Tanto è estate, e sono sicura che ormai abbiate tutti finito Cinquanta sfumature di EHI NO FERMI SCHERZAVO TORNATE QUI! NON OFFENDETEVI!

Che lettori permalosi.


Miei cari lettori, oggi sono proprio fuori dai gangheri. Avevo chiesto a quel lazzarone di Peter Parker di portarmi i nuovi primi piani dell’Uomo Ragno che aveva scattato durante la sua ultima bravata all’Empire State Building, e cosa mi combina quel ragazzino che pago sempre più di quanto vale?

“Signor Jameson,” mi dice, “Signor Jameson, c’è stato un problema con le foto dell’Uomo Ragno… Le ho portato questo articolo, di una certa Ottonovetre, la nostra amichevole fanwriter di quartiere. È un buon pezzo, boss. Sono sicuro che valga la prima pagina!”

E cosa potevo fare io di fronte a quella faccia di tolla di un Parker? Ho stracciato l’articolo in mille pezzi e glieli ho gettati in faccia con disprezzo. “Sei il solito tonto, Parker! Io ti chiedo una cosa e tu non sei neanche capace di fare il tuo stupido lavoro! Puoi scordarti la paga, razza di incapace che non sei altro!”

Parker se ne è andato via piangendo, e io mi sono messo a fumare il mio sigaro per calmarmi i nervi. Ho fissato per un po’ i pezzettini dell’articolo stracciato e alla fine, per passare il tempo, mi sono messo a riattaccarli con il nastro adesivo.

È venuto fuori, mi venisse un colpo secco, che l’articolo non era niente male davvero. Maledetto Parker, allora è vero che ha l’occhio buono… Ho deciso di pubblicarlo e di mandare a quella Ottonovetre un assegno di cinque dollari per la buona volontà, ma Parker sta fresco se pensa di vedere un centesimo su questo lavoro! Parola di Jonah Jameson.

Quello sfaticato di Parker che si crede uno scopritore di talenti.
 La Kukiness Production è orgogliosa di presentare
in
METAFORE E SIMILITUDINI

Ah, le metafore: croce e delizia del fanwriter. Non c’è figura retorica più abusata e bistrattata della metafora. Evitare figuracce facendone a meno, però, è la via dei pavidi: meglio sviscerarle e vedere cosa funziona e cosa no.

Iniziamo chiarendo la differenza tra similitudine e metafora: la similitudine è introdotta da termini di paragone (come, quale, sembrava, pareva…), la metafora è inserita nel testo senza questi avverbi. All’atto dello scrivere, la metafora risulta più evocativa della similitudine, perché l’immagine arriva al lettore senza “intermediari”. Anche a livello di struttura del periodo, le frasi sono più corte, quindi più dirette:

Mario è veloce come un fulmine.

Mario è un fulmine.

Quando usiamo metafora e similitudine?

In un testo di fiction (che è quello che ci interessa) le usiamo quando vogliamo rendere più chiaro il concetto da esprimere e le parole che useresti normalmente non si rivelano sufficienti. Insomma, come tutti i trucchi e le regole di scrittura, anche la metafora si usa per essere più efficaci nel comunicare.

Utilizzare la metafora è una sceltarischiosa, per l’autore: il lettore si sta addentrando nella storia e tu gli schiaffi all’improvviso un concetto che estranea il suo cervello e lo spedisce in un altro campo semantico. Prendiamo Mariangelo che ha deciso di raccontare la storia di Henry Borrows, famoso detective. Mariangelo descrive il detective mentre sta percorrendo i corridoi di una fabbrica abbandonata in cerca dell’assassino. Decide di dire che il detective era molto silenzioso e aveva un’aria minacciosa, quindi scrive “si muoveva come un leone che ha fiutato la preda”. Il lettore si stava calando in un corridoio lungo, scuro e polveroso, quando sbuca d’un tratto nel suo cervello il leone acquattato nell’erba della savana. Lo sforzo che il lettore vi dedica deve essere ripagato da un’idea più vivida di quello che volevate descrivere (in questo caso, Mariangelo ha scelto una similitudine talmente stra-abusata da suonare fastidiosa: ritenta, Mariangelo!).

Stiamo quindi rischiando di perdere l’attenzione del lettore. Chiediamoci sempre se ne vale la pena.

Mariangelo, non fare quella faccia.
ALARM!
ovvero, la sindrome del poeta

La cara wiki ci dice che “il potere evocativo e comunicativo della metafora è tanto maggiore quanto più i termini di cui è composta sono lontani nel campo semantico”. Vero, ma con riserva. Se scrivo che Maria piangeva “fiumi di lacrime” sto usando due termini vicini nel campo semantico ( lacrima = acqua, fiume = acqua ) e l’effetto sul lettore è “certo che si poteva sforzare un pochino di più”. Il bello della metafora è inventarsi un paragone simpatico, particolare, originale, meglio ancora se svela cose in più del personaggio che la usa. Il problema sorge quando spunta una brutta bestia chiamata “vena poetica” che produce alcune tra le perle più imbarazzanti nella carriera di uno scrittore: non è una buona idea inventarsi immagini troppo ardite: “Le perle cerulee che le solcavano le guance in una tragica rincorsa su strade selciate d’angoscia” non è poesia, è la strada più veloce (e nemmeno selciata d’angoscia!) per rendervi ridicoli.

Questa precisazione la faccio non perché sono una fanatica dello stile asciutto e odio la poesia e le figure poetiche, ma molto più prosaicamente perché scrivere metafore poetiche che siano anche efficaci E davvero evocative è difficile. Nella maggior parte dei casi sono solo immagini che, per molti motivi, suonano ricercate, ma se analizzate non vogliono dire nulla. Forse qualcuno di voi ha trovato interessante o poetica la frase sulle perle cerulee. Per vostra informazione, è stata concepita in una decina di secondi senza nessuno sforzo intellettuale. Confrontatela con i quaderni pieni di ripensamenti di Leopardi e riflettete se sono davvero parole poetiche e non, piuttosto, cose che “suonano bene” messe assieme da un generatore casuale.

Esempio di metafore ben fatte: ho scelto una canzone di Davide van de Sfroos perché ha buoni esempi di metafore evocative create con parole semplici.

Non è totalmente corretto da parte mia prendere una canzone, dato che stiamo parlando di narrativa. Epperò le canzoni di Van de Sfroos sono racconti, nel senso che c’è un inizio, uno svolgimento e una fine. È più produttivo per uno scrittore vedere esempi di metafore che accompagnano e fanno crescere la storia, rispetto a metafore che stanno lì a fare bella mostra di sé ma rigirano attorno a una situazione statica.

La canzone s’intitola “La machina del ziu Toni” (vi risparmio il dialetto, andiamo di traduzione): parla di un ragazzino che si trasferisce in città, ha successo ma perde la sua anima nei giochi del potere. Guardate come le metafore aiutano ilcantautore a trasmetterci questo concetto (in grassetto, similitudini e metafore):
Sulla macchina dello zio Tony
Senza capotta né copertoni
Col volante che si stacca
Col cuscino di pelle di mucca
Parcheggiata nel fienile
Con le galline sul sedile
andavamo ad ascoltare le musicassette
giornaletti tutti pieni di tette
Era un viaggio immaginario
senza marce senza fanali
con i Black Sabbath e la luna
sopra il tetto della cascina
sigarette e moccolotti e adesivi sul cruscotto
Sant’Antonio e i Rolling Stones
Padre Pio con i Ramones
Guarda come ballo bene
con gli anfibi e la cresta
la barbetta da rasta
e le toppe sul giubbetto
Sono il re della Zocca dell’olio
e qui in mezzo alla pista mi sembra che mi basti
Tutto quello che ho
e chissà giù in fondo al prato
che vita mi aspetta
quando apro il cancello
che strada farò e che macchina lucida
e che cilindrata
e chissà sul sedile qui di fianco chi si siederà
Piantato qui come un legno
a caccia di impiego
ho imparato a spazzare
ho imparato anche a scodinzolare
mordo i corni delle brioches
sopra un bancone appiccicoso
odore di asfalto, di prostituta
di carogna, di lavanda
A Pandora abbiamo rotto il vaso
Il coraggio lo abbiamo nel naso
tatuaggi come maori
ma nostalgia dell’oratorio
Siamo i draghi del fast food
travestiti da Robin Hood
gli stregoni della borsa
architetti di tutta questa farsa
Guarda come ballo bene
con i vestiti della festa
tanto il mondo è una crosta
finché puoi grattare
Guarda come gioco bene
con le carte della banca
col ministro e la torta
che si deve dividere
Facciamo a pezzetti le giornate come Sushi
ma l’odore che ci resta non è molto buono
Facciamo credere di avere mille spine
ma siamo come castagne sotto i nostri cappotti
Vagabondi delle strisce pedonali
profeti che guardano la sfera youtube
e chissà sul sedile dello zio Toni
che musica ascolta
chi c’è seduto
Guarda come ballo bene
con gli anfibi e la cresta
la barbetta da rasta
e le toppe sul giubbetto
Sono il re della Zocca dell’olio
e qui in mezzo alla pista mi sembra che mi basti quello che ho
Could you be loved
Could you be loved

La parti evidenziate qui sopra ci aiutano a imparare un altro concetto: riprendete le metafore che avete creato! Usate con fantasia il nuovo campo semantico che avete tirato in ballo (come al solito, anche questo consiglio portato all’eccesso provoca alti livelli di ridicolo) e fatelo in modi diversi: nella canzone, il ballo effettivo del primo ritornello (i ragazzini con le cassette nell’aia) si trasforma in metafora nel secondo (l’uomo d’affari che si giostra nella vita come in un ballo). Ancora, notate come l’autore ha tenuto conto della storia del personaggio sempre nel secondo ritornello: mangia il sushi, cibo “di città” pretenzioso, vagola per le strade e guarda i video di youtube in cerca di una profezia sulla sua vita. Le metafore, in questo modo, risultano concrete tanto quanto i pezzi in cui non si usano: possiamo vedere lui che attraversa la strada con aria smarrita, esattamente come vedevamo lui e i suoi amici a sfogliare i giornaletti sconci.

Per contrasto, leggete alcuni esempi di metafore ardite, dove le parole auliche la fanno da padrone e il concetto affonda nella nebbia (pardon, nella bruma mattutina che si alza dalle pozze torbide come piombo fuso degli autunni gallesi):

ostentando lo sguardo di chi pativa i preliminari della ghigliottina
voce che sfiorava le pendici della neutralità
mente partizionata in un’effusione carnale e tremula

Se qualcuno mi sa spiegare soprattutto la terza (a me viene in mente un cervello tagliato in due da un bisturi che rilascia materia grigia e se ci fai pic-pic col dito si muove) mi fareste un grande piacere.

ALARM! (2)
ovvero, metafore sotto le lenzuola

Accanto alle metafore poetiche, un altro momento in cui scivolare nel ridicolo è questione di attimi è nella descrizione delle scene d’amore: se “pene” e “vagina” ci catapultano in un libro di anatomia e “cazzo” e “figa” in un film porno, le arrampicate metaforiche per evitare questi termini suonano spesso peggio. Dato che non ci facciamo mancare nulla, a volte c’è la combo: metafora poeticissima per rendere indimenticabile la prima volta del vostro personaggio. Arg.

Mi sento di darvi un consiglio spassionato: parlate di quello che accade e lasciate perdere le metafore. In queste scene, meno ce ne sono meglio è. Ovvio, non è un divieto categorico: Hitchcock conclude “Intrigo internazionale” con un treno che, birichino, si infila in una galleria (però era Hitchcock). Se proprio dovete usarle, le regole che valgono sono le stesse che usate per scrivere bene: siate semplici, usate le matafore e le similitudini per chiarire e non per infiorettare, adattatele ai personaggi.

Spesso le metafore venute male possono essere prese pari pari e infilate in una parodia. Se i vostri amici leggono ciò che avete scritto e ridono, fatevi qualche domanda.

Esempi di metafore “rosse” interessanti

[1] Lui le bloccò i polsi, lei ringhiò.
– Calma, diavolo. È solo che non voglio che provi a spezzarmi il collo, – le mormorò all’orecchio.
Il ringhio diventò più basso, come quello di un gatto che fa le fusa.
[2] È così che sono io ad arrampicarmi su di lui, ad afferrare il suo collo come se stessi annegando. Per baciarlo.
[3] La donna con le calze rosse di seta, con i capelli rossi di seta, con il cuore rosso di seta voleva lui, il cacciatore sconfitto. Le mani di lei scivolavano sulla sua pelle, lo baciava con la sua bocca rossa di seta.
Quando quella donna voleva fare l’amore con lui non c’era più spazio per i pensieri. Sapere che lo desiderava era una vittoria talmente dolce che il sapore amaro della sconfitta non si sentiva più.

[4]Harry sorride sulle sue labbra, sentendosi all’improvviso sfrattare dal proprio stesso corpo, i muscoli e i tremiti che gli sciolgono lentamente le ossa.

Esempi di metafore secsi

[1] Me… me lo sta leccando come se stesse mangiando un gelato.
Proprio così!
[2] Le nostre lingue iniziarono a cercarsi, creando, con il loro movimento rotatorio, un vortice di desiderio.
[3] È come se avessi una lancia affilata dentro di me, bollente, che causa non solo dolore ma anche bruciore.
[4] lui che con una spinta abbatteva il mio cancello di giada
[5] Tronco di carne virile
Bene, abbiamo valutato i rischi, spruzzato il Vape sulla vena poetica e deciso che nella scena ci va una metafora. Come scegliamo la più adatta? Sempre con stampata in testa la Regola Aurea (la metafora chiarisce, non complica), vediamo cosa altro influenzerà la nostra scelta.

Chi sta parlando? È plausibile che tale personaggio dica una cosa del genere o suona ridicolo?

Ogni personaggio ha un PDV personalizzato, se lo abbiamo caratterizzato bene. Quando decidiamo di usare una metafora nel PDV di un personaggio, facciamo in modo che non stoni con quello che abbiamo costruito nella storia. Un rude soldato non dirà che la donna che ha visto ha un profumo soave come le fragranze al bergamotto e lillà di quella botteguccia di Parigi, un bambino non userà paroloni complicati. Inoltre, come accennavo prima, usate le metafore in modo furbo! Fate capire chi sta parlando, lasciate che anche le metafore che usa parlino di lui. Il nostro soldato userà scenari di guerra, armi, situazioni che ha vissuto come termini di paragone.

Angolino del signor Lapalisse: siete voi e non io a conoscere il personaggio. Ovvio che ci potrà essere il soldato figlio del commerciante di profumi, così come un bambino genio che recita la Divina Commedia al contrario. Il succo è che la metafora deve essere plausibile in bocca a chi la dice.

Dove siamo? In che epoca?

Il nostro personaggio si muove in un ambiente particolare. Evitate errori plateali, come mettere metafore che contengono espressioni moderne in una storia ambientata nel medioevo, o mescolare le culture. Anche qui, usate una difficoltà iniziale (informarsi prima di scrivere e non andare “a orecchio” o a frasi fatte) per particolareggiare la vostra storia e far immergere il lettore nell’atmosfera!

ALARM! (3)
ovvero, caratterizzazione non vuol dire scadere nella macchietta
Riguardo ai due punti precedenti, non cadete nemmeno nell’errore opposto, ovvero la “sovracaratterizzazione”: le metafore possono essere vostre preziose alleate nel caratterizzare un personaggio, ma non fissatevi sull’unica idea che avete avuto per reiterarla troppo spesso.
Il soldato non vedrà tutto il mondo a forma di mitra, il giapponese non se ne andrà in giro a dire a tutte le ragazze che sono belle come i ciliegi del Kiyomizudera al principiare di aprile. 
Va’ come principiava l’aprile.
 
La sovracaratterizzazione sbuca come un insetto rognoso quando state facendo parlare lo stereotipo del vostro personaggio e non il vostro personaggio. Siamo sullo stesso livello dei cinesi che parlano con la elle e del siciliano che mastica limoni e gira con coppola e lupara.
Uccide più il cliché che la pistola
Esempio buono:
Hermione sorrise nel vederlo allontanarsi di corsa, neanche fosse stato inseguito da un ippogrifo imbizzarrito. Mentre anche l’ultima ciocca platinata scompariva dietro la porta d’ingresso della biblioteca, Hermione capì che avrebbe avuto bisogno di tutta la gentilezza, polso fermo, buona volontà e perseveranza di cui disponeva per aiutare il ragazzo. 
In fin dei conti Draco Malfoy non era molto diverso da un elfo domestico.
L’autrice qui sfrutta il fatto che ci troviamo nel fandom di Harry Potter. Inoltre, c’è tutta la buona volontà di Hermione nel non odiare Malfoy ma di imputare il suo comportamento all’ignoranza (come gli elfi domestici, che non chiedono la libertà solo perché male informati).
Esempio cattivo:
Il meriggio è trascorso da circa sei o sette ore, ma l’estate lascia suo figlio Apollo giocare con il carro più del solito.
Qui chi parla è un ragazzo normale di diciassette anni e siamo nei tempi moderni. Alzi la mano chi dice “meriggio” e chi pensa ad Apollo che lascia giocare Fetonte quando le giornate estive si allungano. Stampigliatevi il motto “parla come mangi”.

Che effetto voglio ottenere?

Come si diceva più su, la cosa peggiore che potete ottenere è che la vostra tragedia faccia ridere o che la vostra commedia faccia piangere. Sia che scriviate commedie sia che scriviate tragedie, le metafore vi saranno utili, con qualche accorgimento.

Caso 1: la vostra storia è seria. Per seria intendo che non è vostra intenzione far ridere la gente quando legge quello che avete scritto. In questo caso valgono i consigli esposti qui di sopra: chiarezza, personalizzazione, semplicità.

Caso 2: la vostra storia è comica. Se siete amanti delle metafore, ho buone notizie per voi: nelle storie comiche potete rispolverare tutto quello che vi ho vietato in precedenza! Ora però mettete via le faretre di aggettivi, che c’è l’iridescente che mi guarda male… Dicevamo, se state scrivendo una storia comica potete tirare fuori le metafore poetiche di cui sopra, perché avranno finalmente un senso come parodie. Il succo della parodia è portare gli elementi caratterizzanti della metafora all’assurdo o al grottesco. Via libera ad aggettivi improbabili e paragoni azzardati. Questo non vuol dire che le parodie e le storie comiche siano facili da scrivere. Come con le metafore “serie”, anche qui è questione di allenamento e occhio. Esagerare troppo non è più divertente, così come al decimo aggettivo il lettore non ride più, si sta chiedendo quando finirà la frase.

Esempio di parodia della metafora aulica:
Draco amava la Mezzosangue come un insignificante pesce in una boccia di vetro poteva amare la raffinata carta filigranata; con lo stesso totalizzante sentimento, silenzioso nel suo grido d’impotenza, ma disarmante nella purezza della propria emozione. Perché su di lei poteva scrivere boccheggianti versi d’amore senza voce, filtrati da quella trasparente prigione che permetteva a lui di guardarla, ma non di bagnarla, perché su di lei avrebbe potuto vergare tacite lettere dorate, nonostante fossero le sue stesse pinne ad impedirlo, costringendolo nell’immutevole statica fluttuanza dell’acquario. 
Lui era il pesce rosso, lei la carta filigranata. E così sarebbe stato per sempre.
Un altro modo di sfruttare la metafora, nel genere comico, è legarla all’anticlimax (partire da un concetto alto per arrivare a uno basso). Altro trucco è l’iperbole: esagerare il concetto che si vuole trasmettere.
Esempi di iperbole e anticlimax:
Una delle due si girò ed al giovane industriale si fermò il cuore: pareva un angelo biondo sceso sulla terra, leggiadra come una fata, aggraziata come una principessa, gnocca come Pamela Anderson.
Il controllore sfoderò un altro dei suoi viscidi sorrisetti. Anche Ikki sorrise, ma si sentiva come se una banda di foche monache gli stesse sguazzando nello stomaco.
con i suoi occhioni lucidi che sembrava un venditore di cipolle interista.
– Come ti vengono certe idee, è impossibile… – gli fece Ikki con una voce da madama Butterfly.
Apollo in quel preciso istante stava uscendo dalla sua jacuzzi di centotrentadue metri di diametro dotata di idromassaggio di bollicinosità pari a quella contenuta in una fabbrica di coca cola in un tornado
– Ehi sorella, quello lo mangi? – gli domandò avvicinandoglisi un ragazzo grasso e alto, con un panino al mascarpone e soppressa in una mano e un tubo di carta con abbastanza erba da rifare il tappeto di san Siro nell’altra.
– Oh, mi scusi! – cinguettò, anche se sembrava più un passero lottatore di sumo che un leggiadro usignolo.
E concludiamo (alè!) l’articolo con la somma minima di quello che ho sbrodolato in 3000 parole (diamine, manco le mie fic vengono così lunghe): metafore e similitudini non sono Il Male, a patto che servano al nostro scopo, ovvero raccontare una storia. 
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Le storie da cui sono stati tratti gli esempi
Time Out, di Jakefan [Twilight]
Elfo domestico, di Vannagio [Harry Potter]
Solo per questa volta, di ursuspov [Saint Seya] 
Che poi se la gente comincia a scrivere articoli così belli per me, poi la gente pensa che questo sia un blog serio.
[Kukiness] 

 

Un modo sicuro più o meno al 100% per sapere se una fanfiction vale la pena di essere letta è quello di osservare l'(ab)uso di riformulazioni del nome proprio. Ecco, cominciare un post con una parola come RI-FOR-MU-LA-ZIO-NE è un modo altrettanto sicuro di perdere l’attenzione dei lettori alla prima frase. Cos’è questa brutta parola, la riformulazione? Facciamo un esempio alla Professor Spiegoni:

«Harry, la verità è che io…» disse Ginny, «devo parlarti.»
Harry inarcò un sopracciglio e guardò l’ultima nata di casa Weasley negli occhi.
«È successo qualcosa?» domandò il moretto, con voce apprensiva. «Sei pallida. Che succede, qualcuno ti ha fatto del male?» Il grifone storse la bocca in una smorfia.
«No no,» disse la rossa, abbassando lo sguardo. «No, non ti preoccupare.»
«Ginny, non mi tenere sulle spine!» incalzò il Cercatore Grifondoro, posando le mani sulle spalle della giovane. «Che cosa devi dirmi?»
La ragazza tornò ad alzare lo sguardo sul volto preoccupato dell’amico.

Allora!

Qui abbiamo due personaggi che dialogano, nello specifico Harry Potter e Ginny Weasley. Apparentemente niente di più semplice, no? Quindi qual è il problema di questo brano? Che i personaggi non sembrano due ma DIECIMILA. E questo a causa delle riformulazioni! Le riformulazioni sono infatti quel “moretto”, “rossa”, “Cercatore Grifondoro”, “la ragazza” e “l’amico”; si riferiscono tutti o a Harry o a Ginny e cercano DISPERATAMENTISSIMAMENTE di non ripetere il nome proprio del personaggio.

Questa tendenza è una spia di ingenuità stilistica. Ricorrono alle riformulazioni quegli autori che si ingarbugliano nel proprio stile e nella propria sintassi e non riescono a trovare una soluzione più pulita e più intelligente della riformulazione. Notare che questo brano l’ho scritto io di mio pugno quando avevo circa… quindici anni? O giù di lì. L’ho giusto un filo esagerato per l’esempio, ma c’erano un sacco di riformulazioni comunque. Nessuno nasce imparato. Non ti svegli la mattina consapevole del tuo stile e della sintassi del mondo. Per questo parlo di “ingenuità” e non di “ignoranza” o “stupidità”. Passiamo tutti la fase del “il moretto guardò negli occhi il biondo Serpeverde”… prima o poi qualcuno ci allunga un manuale di stilistica e a quel punto la smettiamo. Forse…

A questo punto tutti abbiamo capito che cos’è una riformulazione. Ma perché quando ne troviamo una dobbiamo gridare ORRORE ORRORE? Vediamo insieme quali sono i motivi per cui le riformulazioni vanno evitate come la peste.

Uno dei motivi per cui si arriva alla necessità di usare le riformulazioni è il non sapere gestire un dialogo o una scena descrittiva. Proviamo infatti a sostituire tutte le riformulazione dell’esempio sopra con il nome proprio del personaggio che compie l’azione. Vediamo se il brano migliora oppure no:

«Harry, la verità è che io…» disse Ginny, «devo parlarti.»
Harry inarcò un sopracciglio e guardò Ginny negli occhi.
«È successo qualcosa?» domandò Harry, con voce apprensiva. «Sei pallida. Che succede, qualcuno ti ha fatto del male?» Harry storse la bocca in una smorfia.
«No no,» disse Ginny, abbassando lo sguardo. «No, non ti preoccupare.»
«Ginny, non mi tenere sulle spine!» incalzò Harry, posando le mani sulle spalle di Ginny. «Che cosa devi dirmi?»
Ginny tornò ad alzare lo sguardo sul volto preoccupato di Harry.

Uhm. Vi sembra meglio dell’esempio numero uno? No? Eppure ho tolto tutte le riformulazioni! E allora perché il brano continua a fare schifo?

Semplice. Il problema non sono le riformulazioni, ma ciò che ci spinge a usarle; il brano è INFARCITO di parole e di specificazioni inutili. Ad esempio:

Harry inarcò un sopracciglio e guardò Ginny negli occhi.
«È successo qualcosa?» domandò Harry con voce apprensiva. «Sei pallida. Che succede, qualcuno ti ha fatto del male?» Harry storse la bocca in una smorfia.

Harry di qui e Harry di lì. L’abbiamo capito che il soggetto è Harry. Andiamo giù di ellissi.

Harry inarcò un sopracciglio e guardò Ginny negli occhi.
«È successo qualcosa?» domandò, con voce apprensiva. «Sei pallida. Che succede, qualcuno ti ha fatto del male?» Storse la bocca in una smorfia.

Ta-daan. Se il soggetto è chiaro, si può usare l’ellissi e non specificarlo. Ovviamente, fate attenzione all’ellissi facile: il soggetto deve essere chiaro, altrimenti non specificarlo crea confusione.

Harry e Ginny si guardarono. «È pesante la borsa?»
La soppesò con un braccio. «No, dai, ce la posso fare.»
Sorrise. Era molto più semplice così.
«D’accordo. Possiamo andare?»
«Okay. Dove mangiamo?»
Fece spallucce. «Non so, dove preferisci.»

Chi dice cosa a chi, maledizione!

La radice del problema quindi è questa: se non sappiamo gestire bene il periodo, rischiamo di ingolfarci e di rimanere sommersi da dodicimila specificazioni. A quel punto ci facciamo prendere dal panico (“Ommioddio, ho ripetuto Harry due volte a distanza di due righe!!!!”) e cerchiamo di mettere una toppa là dove crediamo esserci il buco. Ma la toppa è peggio del buco, perché:

1) le riformulazioni, esattamente come i dodicimila nomi propri, sono specificazioni inutili. Tutto ciò che è inutile e sovrabbondante ANNOIA e disperde l’attenzione del lettore;

2) le riformulazioni creano confusione. Harry è Harry, Ginny è Ginny, se cominciamo ad aggiungere “grifoncina”, “moretto”, “Sfregiato” e chi più ne ha più ne metta il lettore rischia di confodersi! Pensate a una situazione in cui tutt’e due i personaggi sono giovani uomini, con lo stesso colore di capelli: che facciamo, ci spariamo?

Matteo sorrise. «Mi piacerebbe vederlo.»
«Non so se ti conviene,» rispose Luca. «Non è un bello spettacolo!»
Il giovane annuì. «Ma ormai mi hai incuriosito! Dai! Portamici!» disse, dando una pacca sulla spalla del ragazzo.
Lo studente sospirò. «Okay, ma solo perché sei tu.»
Il ragazzo lo guardò negli occhi. Non poteva dire all’amico quello che pensava davvero, perché sapeva che il giovane non avrebbe accettato il suo punto di vista.

Cheffatica.

3) il punto di vista, questo sconosciuto. Prendiamo un brano scritto in terza persona limitata:

Harry entrò in Sala Comune. Hermione era sdraiata sul divano a occhi chiusi. Aveva un libro aperto sulla pancia che andava su e giù al ritmo del suo respiro. Harry sorrise. Non gli capitava spesso di vederla così rilassata. L’immagine che aveva di lei di solito riguardava grossi libri e appunti scritti in grafia piccolissima.

Se il punto di vista è ben piantato nella testa del personaggio, è come gestire una telecamera ad alta precisione. Il lettore sa di trovarsi nella testa di Harry e sa che Harry sta fissando Hermione che dorme. Meglio manovriamo la telecamera, più facile sarà far capire al lettore chi sta parlando e di cosa.

Inoltre, se vogliamo essere puntigliosi, Harry non penserebbe mai a se stesso come “il Grifondoro” o “il Cercatore”, come non penserebbe di Hermione che è “una moretta” o una “riccia”, no?

“Ma Kukiness,” direte voi, “Harry non pensa a se stesso nemmeno come Harry!”

Harry fame! Harry panino! Accio panino!

E avete ragione, miei piccoli lettori! Le persone, infatti, pensano più per immagini e per impulsi che per parole, e anche quando pensiamo per parole non stiamo lì a fare la radiocronaca di tutte le nostre azioni – è una dei grandi problemi dei lettori di menti!

Mettiamola in questo modo:

quando scriviamo, il nostro primo obiettivo è quello di comunicare al lettore qualcosa. Se il lettore non capisce quello che sta succedendo nel romanzo, è un bel problema. È uno dei limiti della gestione della prima persona: da una parte abbiamo la necessità di far capire al lettore cosa succede scrivendo in maniera limpida e comprensibile; dall’altra, tutto ciò che facciamo fare al nostro personaggio si ripercuoterà sulla sua caratterizzazione. Pensate a una madre che assiste alla morte del figlio, investito da un’auto: da una parte, dobbiamo riprendere questa scena per far capire al lettore che cosa succede; dall’altra, che razza di persona rimarrebbe a guardare i dettagli della morte del figlio e li descriverebbe minuziosamente nella propria testa? Dobbiamo bilanciare quindi la necessità di esprimerci chiaramente e correttamente e quella di caratterizzare in maniera efficace i nostri personaggi.

Vi faccio un altro esempio. Se il nostro protagonista fosse un benzinaio che possiede solo la licenza elementare, nel momento in cui lo facessimo entrare in una cucina di un hotel, ad esempio, non potremmo scrivere:

Bob prese una sac à poche e si chiese a che diavolo servisse.

Bob non conosce il termine “sac à poche”! O magari sì, perché pur essendo un benzinaio che non è andato a scuola segue tutti i giorni la rubrica di Benedetta Parodi. Ma in questo caso Bob non lo sa.

Lo stesso potremmo dire di Bob che si incontra per la prima volta con Ted.

Bob entrò nella cucina di soppiatto. Aveva una fame da lupi e non vedeva l’ora di saccheggiare il frigo.
“Fermo lì!” gridò una voce.
Bob si voltò e vide Ted che brandiva una padella per minacciarlo.

Bob non conosce Ted! È la prima volta che lo vede. Come fa a sapere che si chiama Ted?

Lui sarebbe un perfetto Bob, se in realtà non fosse Nick Frost.
Ted lo farebbe Simon Pegg.

Torniamo a Harry Potter, che è ancora lì ad aspettarci da tipo ventisette paragrafi.

Dicevamo: verosimilmente, Harry non pensa a se stesso come “Harry”. Vero. Ma nella terza persona limitata abbiamo comunque il filtro del punto di vista che ci aiuta e la necessità di far capire al lettore chi dice cosa e chi fa cosa. Nella prima persona, il verbo coniugato in prima persona singolare ci aiuta a capire chi parla e chi fa cosa senza bisogno di specificare il soggetto “io” (a meno che non ci sia una ragione enfatica):

Prendo il giornale e lo sfoglio fino alla pagina sportiva. «Non mi interessa.»
Giulia mi guarda in tralice. «Come fai a essere sempre così distaccato?»
«Non sono distaccato.» Sorrido. «Solo ragionevole.»
«Potresti andarci tu,» disse Luca.
Ma io non avevo intenzione di andare da nessuna parte!

Nella terza persona, invece, i verbi non aiutano a capire chi stia parlando (tutto è coniugato alla terza persona singolare, senza distinzione). Perciò è necessario esplicitare che a dire e fare certe cose è Harry, non qualcun altro.

Quindi: soddisfiamo la necessità di essere chiari (e specifichiamo quindi al lettore chi compie l’azione) e tendiamo il più possibile alla verosimiglianza (Harry non pensa a se stesso come al “moretto”).